un viaggio
nel nostro atelier

genesi

FioridiMandorlo è un mondo che si nutre dell’arte in tutte le sue forme. L’ispirazione si fonde con la plasticità della materia, in una simbiosi che, ai due elementi, aggiunge un leit-motif che si ritrova in ogni pezzo: la mia interpretazione, il filo invisibile che connette ogni pezzo. Il gioiello di FioridiMandorlo non risponde soltanto a una precisa visione estetica ma diviene seme di conoscenza, mezzo di espressione attraverso il quale raccontarsi.
È riconoscersi nell’arte attraverso l’arte. È un universo popolato da chi, nonostante tutto, continua a sognare, da chi affronta il mondo in prospettiva, conscio che la realtà, che pare a volte immutabile e inesorabile, muta con le nostre azioni.

valori e filosofia

Il gioiello, una volta pensato, prende corpo lontano da me, plasmato dall’arte degli artigiani orafi, senza le mani dei quali le idee rimarrebbero tali. Ogni singolo pezzo, per quanto piccolo, è il risultato di una lunga sinfonia, in cui suonano molti cuori diversi, ognuno esperto in varie arti. Da un semplice disegno, si passa alla progettazione, fusione, rifinitura, incassatura e molto altro. Solo alla fine, dopo vari atti, emerge il gioiello che è pensato, ideato, progettato e realizzato interamente in Italia.

Era l’inverno del 2016 quando, in una camera dalle pareti color carta da zucchero, nacque FioridiMandorlo. Non prese vita come un progetto ben preciso quanto più come un’innata esigenza di esprimermi.
La genesi fu segnata da un libro da studiare per un esame universitario. Tra i vari testi giuridici ve n’era uno in cui l’autore analizzava il diritto utilizzando la lente della codificazione artistica.

In poco tempo mi ritrovai assorta in quel libro dimenticandomi dell’esame e delle sue scadenze.
Tra le pagine si scorgeva un mondo in cui la visione prospettica combinava due realtà tra loro apparentemente divergenti, eppure profondamente simili: l’arte e il diritto. Rimasi particolarmente affascinata dall’approfondimento su un dipinto:
“Gli ambasciatori” di Hans Holbein il Giovane,
in cui scoprì l’anamorfismo.

La parola anamorfosi (dal greco ἀναμόρφωσις, composto di ana- e -mórfosis= forma ricostruita) indica un effetto di illusione ottica per cui un’immagine viene proiettata su un piano in modo distorto e l’unico modo per comprendere cosa sia quell’immagine è osservarla da un determinato punto di vista.

Ne “Gli ambasciatori”, quella che pareva una curiosa macchia grigia oblunga posta sotto al ritratto di due uomini, altro non era che un teschio, ben visibile osservando il quadro da una certa angolazione.
Quel particolare tecnicismo conteneva un insegnamento che, in quel momento della mia vita,
fu estremamente importante per la mia crescita personale: vedere le cose in prospettiva.

Arrivò il giorno dell’esame e, per la prima volta, presi trenta. Quel numero non era una cifra utile ad aumentare la media, ma una svolta, il simbolo del risveglio di una passione sopita. Da quel momento in poi l’arte, il suo studio, la sua contemplazione, non mi ha più abbandonato.
Qualche tempo dopo decisi di fare un viaggio a Londra che, in quel periodo, era particolarmente soleggiata. 

Visitai la National Gallery e, rapita dai corridoi e dalle sale piene di opere di cui avevo solo sentito parlare, mi trovai inaspettatamente di fronte a un’enorme parete decorata con al centro le brillanti pennellate de “Gli ambasciatori”. Se mi fossi trovata davanti Van Gogh in persona non avrei avuto una reazione diversa.

Per un po’ rimasi ferma davanti all’entrata, fissando quell’opera che non sapevo minimamente avesse posto in me radici così profonde. La crepa aperta da un esame qualche tempo prima si aprì fino a far crollare muri e tetto alla vista di un quadro a cui la piccola foto sul libro non aveva minimamente reso giustizia. Passato quel momento in cui spazio e tempo si fusero maturai una nuova consapevolezza: voler vivere in, per e con l’arte.

La pagina Instagram e il successivo shop su etsy nacquero quasi per gioco, con la sola volontà di creare.
Desideravo fondere i miei studi astratti a qualcosa di materiale, vivo. Un mezzo attraverso il quale promuovere l’arte. Arrivarono i primi ordini, le prime collezioni, le prime soddisfazioni e poi ancora ordini, collezioni. Mattone dopo mattone, giorno dopo giorno quello che era un hobby si stava trasformando in un lavoro vero e proprio.

Studiavo e nel tempo libero creavo. Accanto all’arte figurata comparvero la letteratura, la poesia, la musica e infine lo studio dei metalli, le prime pietre. Iniziava a delinearsi l’universo FioridiMandorlo. Non pensavo che questo sarebbe diventato il mio lavoro al termine dell’università. Credevo che mi avrebbe fatto compagnia e mi avrebbe sostenuta in quegli anni ma, senza rendermene conto, aveva posto in me radici così solide che quando mi ritrovai con il foglio di laurea in mano non vi fu una specifica scelta quanto piuttosto un ulteriore passo avanti verso la strada che avevo già percorso.

E poi tornò lui, di nuovo lui, a indicarmi la via: Hans Holbein il Giovane. Scoprì che colui il quale aveva creato “Gli ambasciatori” disegnava anche gioielli. Se non era un segno quello, non so cosa potesse essere.

Ci furono molte altre tribolazioni, materiali e spirituali ma alla fine nacque Itaca, figlia del desiderio di plasmare tramite l’arte e dal coraggio di credere in se stessi e nei propri sogni.

Da gioielli in cui venivano materialmente rappresentate le opere d’arte ero arrivata, finalmente, a poterle interpretare, dando libero sfogo a quell’esigenza di creare.

Claudia